martedì 9 dicembre 2014

AUSGANG.



Amy è innamorata di Dereck.
Lo guarda con occhi diversi, gli altri non possono comprendere il suo splendore.
Amy è seduta a un tavolo, fissa il suo uomo mentre le prepara il pranzo.
“Che fortunata che sono” pensa Amy.
Dereck si volta, è cupo in volto. Ha visibilmente il doppio degli anni di Amy.
Sbatte il piatto sul tavolo.
Amy sorride, pensa che il suo omone oggi sia nervoso.
Prende una forchetta è mangia.
“Potresti tagliare la carne per me?” chiede Amy. E’ difficile qualsiasi attività con una sola mano a disposizione.
Dereck svogliatamente taglia a grossi pezzi il piatto che ha preparato.
Sul tavolo un giornale.
“parlano ancora di me dopo tutti questi anni?” chiede Amy incuriosita.
Dereck annuisce.
Amy mangia in silenzio. Capisce che non è giornata.
“vorrei riposare”, Amy sa cosa significa questa richiesta.
Dereck prende una chiave e sblocca le manette con cui aveva legato Amy al tavolo, l’accompagna al letto e l’ammanetta alla spalliera.
“Dereck… sono felice che parlano ancora di me, significa che hai fatto un buon lavoro.” Amy chiude gli occhi e dorme.

Dereck esce dal bunker sotteraneo, ed è pronto ad entrare in azione. E’ orario di scuola, di nuova carne. Amy ormai è troppo sentimentale. 


LUIGI FORMOLA

lunedì 1 dicembre 2014

Voce del verbo sarò.



E' l'alba, e la sveglia sta per suonare.
Mi sveglio puntualmente come ogni mattina pochi minuti prima che inizi a suonare, ricordandomi che un'altra giornata sta per iniziare.
E' l'alba e voglio che lei accanto a me riposi ancora un pò, per questo mi anticipo e rubo pochi minuti di sonno alla mia notte per non svegliarla.
E' l'alba e il caffè già è pronto li sul fuoco.
Mi concedo questi pochi minuti guardando la strada ancora vuota e quel velo di tristezza cerca di pervadermi.
Allora giacca e cravatta pronte a rappresentarmi, un bacio veloce al mio piccolo angelo e vado via, pronto a questa giornata uguale a ieri, e l'altro ieri ancora.

Con una borsa in mano e uno status che serve per darmi tono cammino tra le strade della città, fingendo che tutte le vite che mi passano accanto non producano nessun effetto.
E' da poco passata l'alba e incontro solo volti di chi come me ha accettato questa situazione come un accordo tacito con la vita.
Nessun sorriso. Non intravedo grandi speranze, solo volti rassegnati ad affrontare ciò che sono diventati e che magari non avrebbero mai voluto. Incontro solo un ragazzo, che ha uno strano bagliore negli occhi.
Intravedo la fede. La fede nella vita. Probabilmente è ad una delle sue prime uscite nella fattispecie dei vampiri d'ufficio che abbandonano le proprie case quando il sole sta per sorgere.
Probabilmente non sa cosa gli aspetta, ipotizza milioni di strategie per poter dare il meglio di se. Forse lui ci riuscirà! Pone al primo posto la voce del verbo sarò. Mentre io già sono.

Ho sempre odiato l'odore dei mezzi pubblici. Ho la sensazione che tutto il tono che mi sono dato, anche solo con la camicia giusta, a contatto con questo tanfo, rovini ogni sforzo.

Sono quasi arrivato ed inizio a riprendere i miei pensieri dove li avevo lasciati alle 17.00 del giorno precedente. Oggi ci saranno i nuovi arrivati, il futuro.
Quando sono arrivato anch'io ero il futuro, e guardavo la vetta di questo edificio che ormai è la mia seconda casa come se fosse questo il futuro.
Indosso la mia maschera, un respriro profondo e m'immergo in queste porte scorrevoli di vetro che mi ricordano che in fin dei conti sono un numero. Un numero che in fin dei conti deve far quadrare i conti.
Sorrisi e strette di mano anche a chi proprio non conosco al di la del nome.
Strette di mano anche a chi non m'interessa conoscere una singola briciola della sua vita.
E strette di mano anche a chi mi ha rubato quella promozione ed oggi decide cosa sia giusto che io faccia oppure no.

Tutti in postazione per sentire quello che ho da dire. Il futuro vuole ascoltare le mie parole d'accoglienza. Eppure per me sembra già passato. E' la quarta volta che quest'anno ripeto questo discorso di rito che è trio e ritrito. Ci sono tutti: quello che annuisce ad ogni singola cagata che dico, la ragazza che accavalla le gambe per farmi cedere ad uno sguardo, il prima della classe, e quello che già si capisce che vuole fare la rivoluzione. Si piegherà. Come tutti.

Una pausa caffè, per riprendermi prima di tornare dai miei discepoli. Passa il mio vicino di scrivania e con una pacca sulla spalla asserisce che oggi sono stato più convincente del solito.
Di riflesso mi giro e mi specchio in quella porta per capire dalla mia espressione se quelle parole fossero vere o sono state dette solo per compiacermi. Gli occhi sono già rossi e allora capisco che il resto della giornata sarà una lotta.

Alle spalle tutta la giornata, congelo tutti i pensieri pronti ad essere ripresi alle 8.00 del giorno successivo.
Lungo la strada ci sono tanti ragazzini che sembrano proprio non sapere come impegnare il proprio tempo.
Poi assaporo il profumo di pensieri che mi hanno forgiato l'anima. Come se seguissi una scia riconosco quelle personalità che sono intramontabili.
Passano gli anni ma chi vive per quella passione ha un qualcosa di riconoscibile che ti rende come marchiato a fuoco.
Incuriosito passo di proposito davanti a loro che sono seduti su una panchina a discutere chissà di quale conquista del mondo.
"Dobbiamo trovare un bassista se vogliamo fare qualcosa. I bassisti sono sempre difficili da trovare". Ascolto, cammino, socchiudo gli occhi e sorrido.
Passano gli anni, ma i problemi dei ragazzi non mutano, e neanche la carenza di bassisti.

Sono a casa. Allento già per le scale la cravatta.
Sono a casa. È vuota. I miei angeli non mi aspettano oggi. E dopo una giornata di vuoto misto a pratiche mi precipito sotto la doccia. Faccio scivolare tutti i pensieri pesanti e lascio su di me solo quelli semplici, che mi permettono di trascorrere una serata serena.
Mentre asciugo quei pochi capelli che hanno resistito alla forza di gravità ripenso ad un mio vecchio amico.
E da un po che non lo sento. Una birra in compagnia sarebbe l'ideale stasera.
Pochi minuti dopo squilla il telefono. Magari telepaticamente questo mio amico ha avuto la mia stessa idea.
Rispondo ed è mia madre. Cerco di convincerla che va tutto bene. Che presto, impegni permettendo, saremo a casa per qualche giorno.
Mi informa su questioni di famiglia e come sempre si dilunga nei minimi dettagli. Fingo che ho fretta e mandandole un bacio a lei e papà, la saluto.

Ho nostalgia dei vecchi tempi e mi fiondo al computer. Ricevo la richiesta di amicizia su FaceBook da mio nipote. Pensare che alla sua nascita questo Social Network aveva già un anno di vita. Che stranezza.
Ho nostalgia dei vecchi tempi e apro YouTube per vedere un pò di me.
Le chiavi nella serratura mi riportano ad oggi, e il mio piccolo angelo, contento come sempre, grida come se non mi vedesse da anni. "Papà oggi la maestra ha detto che sono il bimbo più bravo".
 Non sono severo con lui come lo sono con me stesso, e non gli dico che non si è mai bravi abbastanza nella vita, ma gli scompiglio i capelli in un gesto di approvazione. Voglio essere importante per lui, voglio insegnargli tutto ciò che ho imparato in 35 anni di vita.

Lei invece sembra stanca e triste oggi.
Mentre il mio piccolo angelo si dedica ad imitare Picasso, ne approfitto per chiederle cosa succede, perché il suo sguardo è maledettamente triste. Ed io odio quando non riesco a strapparle un sorriso.
E' stanca. E' stanca di dover fare sacrifici, di aver rinunciato a tutto per seguire me, di aver messo l'amore prima di ogni altra realizzazione personale. Come sempre sospiro e non so cosa risponderle. Passerà.Tutto passerà.
Le do un bacio e sviando l'argomento che rovinerebbe la mia serata di totale relax, torno dove ero rimasto.
Rimetto Play ed il mio piccolo angelo incuriosito da quella musica si avvicina e vuole dimostrarmi che sta imparando a leggere.
Sforzandosi e sillabando pian piano pronuncia "se, senza, fi, ne, fine. Senza Fine". Mi chiede chi sono quei ragazzi che stanno suonando. Non rispondo, mi farebbe troppo male.

E' pronto in tavola, l'allegra famiglia si riunisce.

LUIGI FORMOLA

lunedì 24 novembre 2014

La fenice.



<< Fammi risorgere come una fenice>>, è già nuda. L’accappatoio è ai suoi piedi e l’acqua che filtra dai suoi lunghi capelli biondi le riga i fianchi e le flaccide gambe. Quarant’anni. Lei ha detto di averne quaranta. Oltre al suo viso tirato nei punti giusti, ci sono tanti piccoli particolari che la tradiscono. Le labbra ad esempio, quelle non sono tirate, anzi. Sono visibilmente pendenti. Per farti risorgere ci vuole Alice Cooper che ti benedice con l’acqua santa mentre Rob Zombie fa il segno della croce partendo dallo spirito santo. Ecco cosa avrebbe voluto risponderle Lorenzo e invece << Grazie, ma non sono affine agli uccelli mitologici>>. La donna sembra non capire il sottile gioco del giovane scrittore e si avvicina al letto simulando il passo felpato di un leone che vuole addentare la sua preda. <<Roar>>, mima il gesto di un artiglio con la mano. Si avvicina a gattoni. Sempre più vicino, dimostrando alcune eccessive rotondità che prima non erano visibili. I seni sembrano due pendoli che scandiscono i secondi che mancano all’inesorabile presa di Lorenzo. <<Signora..>>, <<Chiamami Phoenix, cucciolo>> interrompe l’imperterrita cacciatrice. << Ok Phoenix, ti ringrazio del banchetto cui mi stai invitando…>>, la donna distesa sul letto con gambe spalancate simula i suoni dell’amore come una vera incantatrice di serpenti. Lorenzo non è il serpente che lei credeva.
<< …Davvero Phoenix, ti ringrazio immensamente, ma ho una famiglia, e sono fedele e poi sono contro la caccia agli animali in via d’estinzione>>. Nulla, la donna proprio non intuisce la vena ironica dello scrittore.  << Fantastico, hai famiglia! Che cosa aspetti allora? Piccolo tricheco dalle fantasie d’altro mondo, chiama subito la mogliettina e facciamo partecipare anche lei>>. Il vomito, Lorenzo sente che è pronto a vomitarle la cena offerta dall’organizzatore della fiera. Forse è davvero precipitato nel film L’esorcista e non ne è cosciente. Avrebbe vomitato volentieri, ma la donna preferiva sicuramente un’altra tipologia di liquido, seminale magari. Lorenzo è sfinito. << Senti Phoenix, se mi concedo a te, dopo vai via vero?>>. Ormai nessun gioco di parole vale quanto la verità spiattellata in faccia. Lorenzo non ha considerato un aspetto della fenice. << Ovvio che no! Tu mi farai risorgere, e poi morirò di nuovo, e allora dovrai riportarmi nuovamente in vita>>. 


LUIGI FORMOLA

lunedì 10 novembre 2014

CERCASI DISPERATAMENTE LAVORO

Ne ho disperatamente bisogno. Tecnicamente non è per il denaro, si certo anche quello conta, ma serve solo per comprare cose, brindare con champagne di alta qualità e dimostrare che si possono indossare gli occhiali da sole di notte. No, non è questo il motivo per cui ne ho bisogno. Ho provato a smettere, ma è irrazionale ciò che mi spinge a ricercarne sempre. Sento la fronte sudare, le mani tremare e tutti i pensieri sono rivolti esclusivamente alla finalizzazione di quella cosa. E’ come un passeggero che viaggia parallelamente con me e che affamato desidera avere sempre più spazio per le sue priorità. Quando ho ricevuto la vostra chiamata per il colloquio, è stato come un’apoteosi d’adrenalina concentrata in pochi veloci secondi. So che le sembra assurdo. Si, è vero quello che c’è scritto sul curriculum, sono stato nello spazio come astronauta, ero nella stessa  capsula di Felix Baumgartner, e ho partecipato al conclave dello scorso anno per l’elezione di Papa Francesco I. E si, quella è la foto con il cadavere di Bin Laden prima che diventasse cibo per pesci, in quell’anno ero nella S.w.a.t ,ma mi è stato concesso di partecipare all’assalto. Vi chiederete come ho fatto a salire a bordo di quella nave? È una storia lunga ma è riassumibile in tre passaggi. Hilary Clinton è stata diciamo, molto intima con uno dei presidenti di colore degli Stati Uniti d’America, non dirò quale, e quindi c’erano cose che potevo rivelare e ho chiesto un nuovo impiego, e cosi fui spedito in Iraq. Poi sono stato fermo per un mese. Capisce? Un mese, senza lavoro. E ho iniziato a tremare, senza fermarmi, non vedevo una prospettiva futura. Mi era stato concesso un lavoretto dalla politica italiana, ma non gioco ai Bunga Bunga. Li ho superati quando sono stato alla festa che ha rovinato la carriera di Max Mosley, le riprese del famoso video dell’orgia neonazista, sono mie. E ora sono qui, pronto a ricominciare un nuovo lavoro. La mia è una dipendenza fisica, mentale. Totale! Ho bisogno continuamente di lavorare, in caso contrario sento il mio corpo e la mia mente collassare. Ora ho bisogno di un lavoro tranquillo, e la vostra spedizione per la ricerca di Atlantide fa proprio al mio caso. 

LUIGI FORMOLA 

lunedì 27 ottobre 2014

AUF WIEDERSEHEN, PULCINELLA.



Guten Morgen, Giulia.
Lo ripeteva ogni mattina guardandosi allo specchio, per migliorare la sua pronuncia. Le parole non erano taglienti e disarmoniche. Le era stato raccontato di un mondo freddo, antitetico alle calde terre del sud dell’Italia. Auf Wiedersehen, Pulcinella.
Giulia percepiva una lingua dolce e romantica. Ich liebe dich sussurrava all’orecchio di suo marito. Goffamente ridevano entrambi, sapevano quanto fosse difficile parlare il tedesco senza errori.
L’odore di Napoli che emanava la Moka si espandeva per tutta Main Strauss. Giulia si affrettava a chiudere la finestra della cucina per trattenere tra le mura quel sapore di tazzulell’ e cafè.
Giulia sorrise. Suo marito aggiunse dell’anice al caffè. Per combattere il freddo, si giustificò lui. E Giulia annuì.
Questo non è il paese del sole. Bisognava riscaldarsi in qualche modo.
E un’ora per fare l’amore di mattina non era retribuita. Il lavoro invece era ben pagato. Era prioritario su qualsiasi velleità personale.
Sciarpa, cappello e guanti, i migliori amici contro il freddo. Insieme all’anice.
Guten Tag mein lieber Giulia.
La fermata del tram era discretamente affollata.  Giulia diede un bacio a suo marito e s’incamminò verso il centro.
Francoforte aveva la sua dose di sorrisi amichevoli. Era sufficiente per affrontare al meglio un’intensa giornata lavorativa.
Il sale faceva il suo dovere, scioglieva il ghiaccio, liberando i pedoni più distratti dall’ansia di capitomboli. Le vetrine erano affascinanti, addobbate con capi d’abbigliamento e utensili mai visti prima d’ora.
Giulia sorrise nuovamente. Il cinema all’angolo di Dohm Strauss aveva in programmazione Il padrino – Parte II. Suo marito, adorava Marlon Brando e a Napoli, non si parlava d’altro.
Andare al cinema era un piccolo lusso, forse aveva trovato il regalo adatto per Natale. Baciamo le mani, avrebbe detto suo marito con tono da Corleone. E Giulia l’avrebbe interpretato come un sentito ringraziamento.
Avrebbe voluto trascorrere i candidi giorni natalizi con la sola compagnia del suo uomo. Una retribuzione d’amore senza prezzo localizzata nelle loro mura domestiche.
Giulia aveva accettato l’invito dei Cusano per la cena della Vigilia di Natale. Nel silenzio bisbigliato delle famiglie tedesche, si distingueva il tono da Opera dei pupi della famiglia siciliana che abitava anch’essa in Main Strauss.
L’unione scacciava la nostalgia, e i sapori delle festività non potevano essere trascurati.
Napoli o Palermo non aveva importanza. Siamo tutti paisà.
Gute Arbeit Giulia.
La neve aveva ricoperto tutta la banchina del fiume, era un sentiero delineato dai passi dei bambini che scendevano in strada per provare slittini e pattini portati in regalo da Nikkolaus poche settimane prima.
Giulia era giunta al SeeLord Club.
Sapeva che le sarebbe toccato lavorare il doppio delle ore per far scintillare quel club galleggiante. La sera precedente, un imprenditore di Offenbach aveva riservato l’intero locale per una festa speciale. Prost!
Il Main era già vitreo, sulla superficie una spessa lastra di ghiaccio rifletteva i deboli raggi del sole che filtravano attraverso la coltre di nubi dicembrine.
Un sottile fumo nero si disperdeva verso il cielo, il fumaiolo indicava che il battello era pronto. Il SeeLord Club era ufficialmente aperto.
Cristallizzato in un mare di ghiaccio, forniva la sottile illusione che danzare in una balera inebriata dall’odore di senape era l’unica ragione per evadere dalla quotidianità.
Era tutto diverso, per Giulia.
Spolverava la pista da ballo e ripuliva i banconi da innumerevoli residui di bevande che si univano come in un collage di storie non vissute.
Una distesa infinita di differenti bottiglie di liquori era la linea di confine tra la realtà e un desiderio che riviveva ogni mattina. Tra una sigaretta spenta e uno snaps di Jagermeister, sognava. Lei, suo marito, il SeeLord completamente vuoto e un allemande che procedeva al ritmo dei loro piedi scoordinati.
Un sogno, aufwachen Giulia!
Un colpo di tosse, e i pensieri di una danza con il suo uomo volarono lontano nel cielo, insieme al fumo del battello.
Era Mr. Fischer, il proprietario del SeeLord.
Le parole che accompagnavano il suo sguardo sembravano punitive.
I suoi folti baffi biondi impedivano d’interpretare correttamente l’espressione delle sue labbra.
Giulia rispose al suo datore di lavoro.
Guten Morgen, Mr. Fischer. Impeccabile! La pronuncia era perfetta. Bisognava passare a nuove frasi da ripetere la mattina allo specchio.
Riprese a lucidare gli sgabelli che costeggiavano il lungo bancone adiacente alla pista.
Mr. Fischer la condusse in un’altra sala.
Giulia non capiva. Nessuno degli altri dipendenti era a lavoro.
Si preoccupò. Mr. Fischer sorrise, e i baffi non crearono malintesi.
Lacrime di gioia rigarono il volto di Giulia. Nella sala delle cerimonie si festeggiava il Natale, con qualche giorno d’anticipo. Tutti i dipendenti sedevano a un posto prestabilito. Giulia intravide il suo nome su un segnaposto, si sedette. Un piatto decorato con alberelli di Natale e un ramo di pino nascondeva il vero regalo di Mr. Fischer. La paga natalizia. Trecento marchi.
L’uomo aveva una tradizione da rispettare: essere a servizio dei suoi dipendenti per un pasto durante le festività.
Giulia sognava, e osò chiedere. Mr. Fischer annuì. Il SeeLord era a sua completa disposizione per un’ora.
Un ballo d’amore, un film che riecheggiava la patria lontana e una cena in compagnia.

Non si era mai sentita al caldo come quel Natale. Frohe Weihnachten, Giulia.


LUIGI FORMOLA

martedì 21 ottobre 2014

L'ultimo nome della lista.

Un altro nome cancellato. Tutta la vita di Giorgio Angelozzi, professore d’economia in pensione, era racchiusa in quelle pagine. Un cerchio tratteggiato a matita definiva il nuovo obiettivo da raggiungere. Una linea netta color morte, scalfita con forza con la penna d’oro che aveva avuto in regalo da Anna, invece segnava l’eliminazione definitiva. Anna, una ragazza di cui Giorgio era follemente innamorato, fu il primo nome a essere segnato sulla sua agenda. Anna era anche ricca, e aveva fortificato l’animo bramoso del giovane professore. Anna fu il primo nome a essere cancellato dalla lista. Ogni nome depennato, una vittima depredata. Un’identità mascherata da una professione rassicurante era il passepartout per alimentare la sua voglia di accumulare denaro, oggetti e proprietà. Nel corso degli anni era riuscito ad avvicinare nomi influenti, imprenditori e lussureggianti signore solitarie. Giorgio aveva un potere: riusciva a mascherare il suo lato oscuro dietro un volto da perfetto amante e amico di cui fidarsi ciecamente.
L’età non era stata clemente, e tutte le scelte fatte avevano spinto Giorgio a essere un camaleonte sociale che sfugge agli occhi delle autorità e del prossimo. La solitudine pesava sul suo cuore. Da grande truffatore si era ridotto alla noiosa vita di un professore in pensione che occupa il suo tempo leggendo manuali sulla terza età. Lo specchio mostrava degli occhi ancora vivi e pieni di voglia di guardare dentro altre vite, altri conti bancari, altri atti di proprietà. Le pagine stracolme di nomi cancellati erano un ricordo che Giorgio legava alla sua anima e al suo portafogli. Era malato, aveva tutto ciò che si può desiderare per trascorrere gli ultimi anni di vita in serenità. Giorgio era dipendente dal verbo possedere, come una gazza ruba tutto ciò che brilla in modo indistinto. 
L’elenco fitto di contatti sull’agenda di Giorgio si era ridotto soltanto a un indirizzo. Marco Fenice, ex-alunno e attuale direttore del giornale “La città eterna”, un quotidiano romano. Marco, vent’anni prima era stato l’unico a scoprire il segreto di Giorgio, l’anonimo professore che passa inosservato tra la folla. Marco ammirava l’approccio economico alla vita che il professore trasmetteva durante le sue lezioni. Eppure temeva che dietro al suo sguardo vitreo e razionale ci fossero dei demoni che ballassero al ritmo di qualche oscuro segreto. Divenne ossessionato dalla fallimentare vita privata di Giorgio, il quale si presentava come un cinquantenne single e schivo. Marco pedinava gli spostamenti del professore, il quale riusciva a nascondersi come un’ombra nella notte senza lampioni a illuminare il sentiero. Bingo! Un piccolo falso passo. Marco seguiva Giorgio ogni giorno. E trovò la sua risposta. Una donna. Una signora ben in carne sulla sessantina che sembrava avere un titolo nobiliare o giù di lì. Marco ebbe la sua risposta, e fugò le ombre sull’identità del suo insegnante, un comunissimo essere umano con i suoi segreti costellati di adulterio e trasgressione. Trascorsi alcuni mesi, Marco aveva dimenticato la sua folle idea di un Serial killer che uccide con formule economiche.
Tornò sui suoi passi. Di ritorno da un viaggio con alcuni amici vide in stazione un volto che era ben impresso nella sua memoria. Sdraiata su una panchina, dimagrita e visibilmente trasandata, giaceva la donna che aveva visto in compagnia del suo professor Giorgio. Era ridotta a mendicare e a vivere nell’atrio di una stazione. Marco si avvicinò, le offrì delle banconote e le chiese il motivo per cui non tornasse a casa. Lacrime di sofferenza solcavano il volto dell’anziana signora. Soffriva evidentemente d’amore e riuscì soltanto a bisbigliare tra un singhiozzo e l’altro che le era stato portato via ogni briciolo dei suoi averi. Dall’unico uomo che avesse mai amato, aggiunse. Marco non aveva dubbi. Sapeva che il professore era il burattinaio che aveva mosso i fili della vita della signora che si commiserava in uno spettacolo pietoso. Il liceo era ormai terminato, Marco continuò a pedinare Giorgio: aveva ripetuto per due volte per un periodo di sette/otto mesi il copione del perfetto amante per poi sparire con il bottino. Marco non era il boyscout che salva le povere vittime. Voleva guadagnarci un profitto personale attraverso il ricatto. Si parò davanti al professore simulando una telefonata alla polizia. Poche e definite parole. “un truffatore che camuffa la sua attività come un professore solitario”. Giorgio aveva grande intuito e poca forza fisica. Non poté reagire e stabili subito che non si sarebbe fermato. Marco, quasi ventenne, era bramoso quasi quanto il suo professore. Un patto. Il 15% su ogni truffa portata a termine, e lui avrebbe potuto aiutarlo a scegliere gli obiettivi più indicati per la tipologia della sua identità da amante incantatore. Una stretta di mano. Netta. Marco divenne l’unico contatto non depennabile dalla lista di Giorgio.
Squillò il telefono. Marco rispose. Gli affari con Giorgio erano terminati cinque anni prima. Marco aveva scalato velocemente le posizioni nella redazione in cui lavorava per la pagina economica. E divenne direttore. Giorgio non era null’altro che un sassolino da cui liberarsi. Marco invece per il professore era l’ancora di salvezza. Le lacrime di Giorgio tagliarono il silenzio di una non risposta da parte di Marco. Non era intenzionato a tornare ad aiutare un vecchio malato e incapace di portare al termine anche la truffa nei confronti di bambini indifesi. Nonostante la determinazione di Marco, fissarono un appuntamento. Giorgio era invecchiato notevolmente, come se il denaro che non aveva sottratto ad altre persone in quegli anni reclamava la sua parte strappando energie al vecchio professore. Marco non provò pietà. Sapeva di quante vite distrutte erano state cancellate con una semplice linea sul foglio di quell’agenda.
Avevano portato a termine tanti affari insieme, e Marco dopo tanti anni ancora non capiva perché Giorgio avesse scelto di non liberarsi di una presenza scomoda per i suoi piani. La risposta si palesò con un abbraccio. Giorgio tra le lacrime aveva definito Marco, la persona più vicina a essere un figlio. “Non voglio più soldi, voglio una famiglia”. Marco cercava di capire quanto le parole del vecchio fossero sincere. Un truffatore non svela mai le sue emozioni, e Marco credette che ogni singola parola pronunciata fosse vera. L’età avanzata doveva avere ammorbidito le sue pretese che invece di oro cercavano calore umano.
Marco decise di esporsi. Pubblicò sul suo quotidiano l’annuncio di un anziano nonno in cerca di una famiglia che lo adottasse poiché rimasto solo. Non poteva immaginare l’eco che ebbe la notizia di un nonno solitario in cerca di famiglia. La storia di Giorgio, come le onde generate da un sasso lanciato in uno stagno, era arrivata su ogni quotidiano d’Italia e ogni trasmissione televisiva che porta in scena i sentimenti edulcorati.
Giorgio non aveva null’altro da perdere. Accetto il gioco dei riflettori e proponeva la sua finta versione di una vita non vissuta. Tacendo su tutti gli averi che erano nascosti in proprietà a lui intestate.  Tacendo anche che da alcuni anni era malato di diabete. Un male che corrodeva non solo la sua vita, ma soprattutto le sue finanze per cure e visite mediche.
Era inimmaginabile che realmente una famiglia proponesse di portare in casa un vecchio il quale nonostante fosse autosufficiente avrebbe ridefinito il bioritmo dei membri familiari.

I Riva, una famiglia di Siprano, in provincia di Bergamo si fecero avanti. Giorgio aveva trovato una famiglia. Di quelle moderne, che avevano ottime possibilità economiche e con l’animo da buon samaritano, pronti ad aiutare il prossimo. 

lunedì 13 ottobre 2014

La follia ha il sapore di un coltello.




Un suono assordante che rappresentava la salvezza.
La sirena di una nave in arrivo era il biglietto per dimenticare l’incubo in cui erano precipitati.
Il porto-canale non era mai stato cosi buio e sommerso in una nebbia d’altri tempi. Il ricordo di un clima mite era lontano, i monti Ausoni non riuscivano più a trattenere il male, lasciavano sorvolare su Terracina il gelo delle anime dannate.
Stefano guardava ancora quel corpo stramazzato al suolo. Rita tremava come una foglia, era riuscita a piantare un coltello nel suo cuore.
Nel cuore di Nicola.
L’avevano cercato per tanto tempo, e il tempo l’aveva trasformato in un mostro.
Rifugiatosi nel campanile diroccato della chiesa di San Francesco, Nicola, aveva vissuto come un animale, alla ricerca furtiva di cibo. Nicola accumulava il dolore di un abbandono.
Era cattivo.
La rabbia, l’alessitimia e un’innata follia erano gli unici compagni di viaggio tra quattro mura fredde e solitarie.
Hai dovuto farlo, non avevi alcuna scelta”, Stefano cercava di placare il tremolio di Rita.
 Il suo corpo era senza controllo, e il freddo di una notte di Gennaio non era d’aiuto.
La nave sta attraccando, ci sarà sicuramente un ufficiale a bordo, chiameranno loro la polizia”. Le parole di Stefano non sortivano alcun effetto. Erano usciti da un incubo, soltanto grazie ad una morte.
Perché erano giunti a uccidere Nicola?
Rita non riusciva a focalizzare tutto il male e le pressioni subite da Nicola negli ultimi mesi. Riusciva soltanto a fissare quel corpo senza vita e tutto il sangue che aveva ricoperto la banchina e si riversava nelle acque del Tirreno.
L’umidità creava un sottile strato di goccioline d’acqua sui volti di Stefano e Rita, le lacrime si nascondevano bene. I singhiozzi stroncati di Rita un po’ meno. Stava cedendo, la tensione calava e la nave era quasi approdata.
Soltanto alcuni minuti di attesa e sarebbero tornati a vivere le loro vite. Le loro esistenze in cui la costante era il numero due e non il tre.
Due, come loro. Stefano e Rita Di Girolamo.
Gemelli che sentivano da sempre una parte mancante nella loro esistenza. Erano cresciuti sempre insieme, costruendo il loro futuro in una piccola bottega di antiquariato tramandata dai genitori, situata poco lontana da Piazza Garibaldi. Nessuno dei due si era sposato. Avevano un blocco verso la realizzazione sentimentale.
Qualcosa li legava alla loro infanzia. Qualcuno. Nicola.
Come aveva potuto un individuo selvaggio e senza un reale passato condurre anche loro sull’orlo della follia?
Rita guardava il volto di Nicola, aveva gli occhi chiusi, morti, già lontani dalla vita e per la prima volta ritornavano alla mente le parole del padre.
Nicola aveva lo stesso taglio d’occhi della loro mamma, e tanti altri lineamenti che non appartenevano alla loro famiglia.
Nicola aveva un legame diretto con Rita e Stefano. Di sangue.
Un fulmine a ciel sereno aveva colpito i due gemelli alcuni mesi prima. Angelo Di Girolamo, il padre dei ragazzi, si recava quotidianamente nella chiesa del Santissimo Salvatore. Chiudeva la sua bottega d’antiquariato e pregava.
Il suo volto non aveva mai trovato la pace. E i suoi occhi erano un fiume in piena di segreti da svelare.
Sul letto di morte, Angelo Di Girolamo, aveva deciso di sollevare un macigno dalla propria anima e confessare un segreto che aveva logorato per trent’anni la sua unione familiare.
La moglie, Giulia Di Girolamo, non aveva resistito alla presenza del male nella loro famiglia.
Lei sapeva com’era stata concepita quella creatura. Non avendo il coraggio di uccidere un bambino indifeso solo nell’aspetto decise di abbandonarlo, tra gli alberi del Circeo, liberandosi dalla presenza di un diavolo sotto candide spoglie.
E poi si abbandonò anch’essa, congedandosi dalla vita.
Non morì, fissò il nulla per dodici anni prima di tirare l’ultimo sospiro. Qualcosa aveva portato la vita di Giulia Di Girolamo con sé. Qualcuno.
Figli miei, voi avete un fratello, che Dio non faccia mai incrociare le vostre vite alla sua insulsa malvagità”. Nessun amore nelle ultime parole di Angelo Di Girolamo, solo un avvertimento.
Stefano e Rita avevano finalmente interpretato un sogno che li perseguitava da anni.
Un vagito, un piano acuto, stridulo come una lama che graffia una lavagna e fa scorrere i brividi lungo la schiena.
Un pianto di un bambino che si univa ad altri due. Tre. Non era un sogno.
Avevano la conferma che i loro fossero ricordi d’infanzia. Un pianto li portava lontani, quasi a uno stato prenatale e un suono acuto li faceva ripiombare nel presente. La nave suonava l’ultima sirena. Erano a poche centinaia di metri di distanza dal Porto-canale. Dal ponte della nave giungevano le prime voci.
Salvezza si leggeva sul volto di Rita che fissava costantemente Nicola. Gettò le braccia al collo di Stefano e socchiuse gli occhi. Non temeva più quel fratello che aveva reso un inferno il suo, il loro, mondo di oggetti antichi e ben curati.
Stefano è finita, dimenticheremo tutto. Saremo solo tu ed io. Nessun altro fratello. Dimenticheremo, ne sono sicura”.
Gli occhi chiusi, serrati, di Rita stavano già iniziando a elaborare un metodo per eliminare la persecuzione di Nicola avvenuta negli ultimi mesi.
Più chiusi erano gli occhi, più Rita pensava di dimenticare in fretta. Passarono pochi secondi di silenzio. Nessun rumore, neanche dei marinai pronti a scendere dalla nave.
Stefano non aveva risposto. Forse aveva già dimenticato.
Eppure i ricordi pesavano, cosi come iniziava a pesare il corpo di Stefano tra le braccia di Rita. Una sensazione di calore avvolse il volto di Rita.
Stefano era diventato troppo pesante.
Un abbraccio dovrebbe alleviare i brutti ricordi. Il loro incubo non era finito.
Rita riaprì velocemente gli occhi. Sul suo volto il calore era dettato dal sangue che sgorgava dalla bocca di Stefano. Era morto, in silenzio. Rita lasciò cadere il corpo del fratello permettendo al sangue di proseguire il suo flusso. Una macchia che si allargò fino a ricongiungersi al sangue di Nicola.
Un sussulto. Il corpo dell’altro gemello non giaceva più morto.
Rita provò a gridare. Nessun suono uscì dalla sua bocca. Intanto nei Porto-canale continuava a rimbombare il suono della sirena che richiamava i marinai dormienti pronti a scaricare la merce.
Un blocco di cemento aveva piantato Rita all’asfalto solidificandosi con il sangue di Stefano che raggelò in pochi secondi.
Nicola era davanti ai suoi occhi. Un’evidente ferita al petto.
Di cosa diavolo era fatto quest’uomo?
La risposta era chi Diavolo era. Il suo volto non aveva nulla dei suoi tratti umani. La bocca mostrava lo stridersi di denti che si rompevano e mescolavano sangue e saliva, gli occhi sfrecciavano senza seguire una traiettoria ben precisa. E il cuore pulsava in gola, come se quella fosse la sua sede.
Risuonò una voce che proveniva da mondi lontani, non terreni.
Piccola Rita, sorellina. Io sapevo già tutto. Questa era la fine”. Il fiato corto di Rita si propagava sempre più lentamente nell’aria.
Le nuvolette di fumo gelato diventavano sempre più piccole, insignificanti.
Come la sua vita in quel momento. Sarebbe morta, anche se Nicola non avesse compiuto il suo lavoro. Il suo cuore non avrebbe retto.
I nostri genitori hanno pensato che io fossi il male. Tu sai che sono frutto delle loro passioni sfrenate. Nostra madre era una troia. Sono il risultato di molti uomini diversi. Capisci piccola Rita?”.
Nicola senza mostrare un minimo di paura guardò verso l’alto, verso il Monte Sant’Angelo.
Profanare un luogo che ha ospitato la sacralità degli Dei, e scambiare il corpo divino con molteplici sapori che si avvicendano sul proprio corpo”.
Rita strinse un pugno al cuore, stava per cedere. Nicola indicò con un dito il Tempio di Giove Anxur.
Nostra madre ha sfidato gli Dei, e loro hanno mandato me.”
Nicola rise risvegliando i brividi che erano statici sul corpo di Rita.
Probabilmente sarei stato un bambino normale se il rimorso non le avesse logorato l’anima. Voi siete stati i figli che desideravano…io un mostro, mentre la mammina godeva in un’orgia in un Tempio. E Dio, o qualcuno ai piani bassi ha messo il male dentro di me”.
Nicola chinò la testa in un breve cenno di tristezza.
Volevo solo una vita come la vostra. Non ho potuto. Ringrazia la mamma. La rivedrai tra poco”.
Nicola stramazzò al suolo.
Rita era salva.

Non aveva visto il coltello piantato nel suo cuore. Si accorse di essere morta pochi minuti dopo. E tre, fu il numero perfetto di gemelli morti nella stessa notte.


LUIGI FORMOLA

giovedì 9 ottobre 2014

CUORE SOLITARIO DA BAR. Dedicato a Lorenzo Bartoli

Un Gin Tonic, senza acqua tonica e doppio Gin.
Frank lo ordina senza alzare lo sguardo, fisso sul suo cellulare. Continuano ad arrivare foto provocanti di seducenti donne pseudo-Jessica Rabbit.
Sally, la cameriera, masticando sguaiatamente una Big Babol formato famiglia non scrive nulla sul foglietto dell’ordine.
Sai che novità, è ciò che si legge attraverso lo sguardo di una bambola che sogna ancora Simon LeBon.
Deve conoscere quel topo di fogna vestito come un uomo manifesto di Men’s Health, bicipite in vista con relativo tatuaggio di fiamme e teschi.
Forse i due sono stati anche a letto insieme.
Tic Tic Tic.
Frank fuma grandi boccate di aria filtrata elettronicamente, picchietta con frenesia sul tavolo creando un tempo degno dei migliori Megadeth.
Prevedibile come pochi altri, squilla il cellulare. Wake up dead si propaga in tutta la sala.
Due signore, che esibiscono con grande orgoglio le loro copie di un romanzo Harmony mentre sorseggiano un caffè corretto all’anice, si voltano con sguardo di chi è stato interrotto proprio nell’istante in cui Ridge di Beautiful è pronto a rivelare il terzo segreto di Fatima.
Tanto Brooke resta sempre una zoccola. Per questo piace.
E da come parla al cellulare anche a Frank, piacciono le tipe come Brooke.
Torna Sally la cameriera, mastica con nervosismo. Sembra voler fagocitare i suoi stessi denti.
Fa un cenno con la testa verso la porta d’ingresso contornata grossolanamente con uno strato di silicone. Una perfetta incarnazione di donna Saratoga aspetta sull’uscio. Vestita. Di nero. Total Black.
Triplo Gin, s’intravede dal bicchiere trasparente con il marchio Martini impresso sopra. Sally ha due dita di riguardo per Frank.
I due hanno avuto una relazione da 9 settimane e ½. Nessuna sveltina, mille implicazioni emozionali.
E per lei forse non è ancora finita.
Le due signore ridono con gusto. La sai l’ultima?
Hanno lo sguardo malizioso di chi conosce tutti i dettagli della storia ed è certo che uno spoiler piccante rovinerebbe il finale cui stanno per assistere.
Deridono proprio Sally, conoscono l’intera telenovela di un piccolo bar immerso fino ai capelli nei luoghi comuni.
Tic Tic Tic.
La donna vestita di nero si avvicina al tavolo di Frank, gli carezza il bicipite e le fiamme sembrano prendere vita. It’s  getting hot in here.
Frank le offre da bere.
No Martini, no party.
Le due signore lasciano frettolosamente il bar dimenticando sul tavolo le loro copie di un romanzo per frigidelle.
Tira aria di guerra.
Kaboom!
Quasi una cannonata. La notizia che la donna vestita di nero sussurra nell’orecchio di Frank è letale.
Nessun segreto di Fatima, la cruda e dura verità.
Frank suda, non sa se è l’effetto del Triplo Gin o se è l’orlo del baratro che gli procura le vertigini.
Nessuno vive due volte.
Sally torna con un caffè amaro ristretto. Servirà a smaltire il nulla verso cui Frank è diretto.
Gli carezza la testa. E’ lì che risiedono tutti i loro ricordi. Johnny Mnemonic avrebbe tanto da lavorare con loro due.
Frank discute animatamente con la donna in nero. E’ tutto un giallo dal sapore drama.
Frank si discolpa indicando lui.
Tic Tic Tic.
Una scia di fumo annuncia che era sempre stato li, in rigoroso silenzio a osservare gesti quotidiani e a picchiettare su una tastiera con alcuni tasti mancanti. Causa gatto sabotatore di uno scrittore.
Emerge da un angolo buio e poco illuminato. Fuma boccate di vita da un sigaro che è il filo conduttore di un’esistenza.
Non dice una singola parola.
Lascia parlare i suoi occhi color ghiaccio venati d’ironia.
Si avvicina a un cimelio storico come uno Juke-box, mette su una canzone dei Dave Matthews Band. Una qualsiasi, sono sempre perfetti per un finale ad effetto.
Un pugno e il brano parte. Altro che Fonzie! La potenza di una mano che ne ha viste e scritte di storie.
L’uomo saluta Frank e Sally, due cuori solitari da bar, pronti a tornare a battere al ritmo sincopato delle loro vite simbiotiche.
Apre la porta indicando la precedenza alla donna vestita di nero.  E la sfida, come suo solito.
E se ti dicessi che fuori da questo Bar tutto potrebbe cambiare per sempre?
La donna in nero lo osserva, poi sorride.
Gli toglie delicatamente il sigaro dalle labbra, lo spegne con la punta del suo tacco dodici Armani e gli stringe la mano.
Insieme vedranno se c’è ancora un mondo da raccontare. O mondi.

Di cuori solitari si è già detto abbastanza. 

LUIGI FORMOLA

mercoledì 1 ottobre 2014

Janet, Sergio Cicaletti e Burt Lancaster



Janet aveva sonno.
Si rannicchiava sotto le coperte per sfuggire alle sue richieste.
Lui si accendeva una sigaretta mentre in televisione passavano le immagini di un vecchio western con Burt Lancaster.
Lei voleva essere una donna di casa, trattata come una moglie. Da amare.
Invece era solo una troia in affitto, per i suoi bisogni.
Sergio Cicaletti era malato. Di sesso. Janet era il suo gioco preferito tra una cena in cui si discute di affari e un incontro con gli esattori.
Janet ballava. Eccome se ballava.
Sempre e solo per soldi, infilati nel suo striminzito corpetto che lasciava poco all’immaginazione.
C’era un senso nelle sue scelte d’abbigliamento. Sapeva che i suoi clienti ne avevano poca d’immaginazione. Era meglio non farli arrabbiare e mostrare tutta la mercanzia, senza alcuna riserva.
Janet aveva sonno.
S’illudeva che essere un ospite fisso sotto le coperte nel letto di Sergio, le desse il diritto di definirsi una vera Comare.
L’illusione proveniva dal collier che portava sempre con se, anche sotto le coperte. Poteva vederlo brillare nel buio, poteva sentire il freddo dei diamanti che stuzzicavano i suoi seni.
Sergio non la degnava di uno sguardo. Notava solo la sua fessa, e un regalo non era null’altro che un surplus di un colpo andato fin troppo bene. Un avanzo per Janet.
Janet ballava. E cadde. Svenne.
Un blackout in cui rivide tutti gli uomini che l’avevano posseduta in cambio di pochi spiccioli, sempre e solo per volontà del Capo. Un uomo simpatico, ma notevolmente assuefatto dal colore dei soldi.
Sergio era diverso, era dipendente dal sapore del suo corpo. Non la trattava da puttana, neanche da essere umano.
Un ripostiglio per il cazzo a comando.
Forse il bagliore del collier le offuscava la vista. Credeva che il suo principe del riciclaggio avrebbe abbandonato la moglie rompendo il sacro vincolo del matrimonio.
Janet aveva sonno e non andava più a lavoro.
I suoi clienti speciali stavano già assaporando le fantastiche storie raccontate dai fianchi e dalle cosce di altre colleghe. Alcune raccontavano storie davvero poco fini. Volgari!
Janet ballava e raccontava di storie incredibili. Di quelle che aprono porte su nuovi mondi inesplorati.
Il letto non era più un rifugio, dove credere nell’amore e nei regali luccicanti e credere di essere la regina che un tempo era una puttana.
Lo era, e sempre lo sarebbe stata.
Sergio guardava l’ennesimo film western. L’epico duello, sguardo di sfida e la solidità di Burt Lancaster erano scene che conosceva a memoria.
Janet avvinghiata al suo fianco era l’unico materasso in grado di soddisfare anche le pulsioni.
Vomitò. Ovunque.
Janet era disgustata. Non dai sapori di Sergio, amava anche quel senso sporco che contraddistingueva il suo uomo.
Janet aveva la nausea. E non poteva più nascondersi.
Le rotondità l’avrebbero tradita presto. Forse sarebbe morta prima per mano del suo Capo. Niente soldi, niente lavoro e niente vita.
Sergio poteva riscattarla. Darle merito in quella scala valoriale di melma.
Burt Lancaster sfidava il suo avversario, la musica, drammatica come poche, aumentava. Sergio sapeva come finiva la scena. Burt non poteva perdere.
L’intero letto era ricoperto ancora di vomito e bisognava ripulire.
Janet sorrise, non disse una parola.
Sergio, per la prima volta la guardò negli occhi. Raccontarono ciò che lui non aveva mai capito. Né lontanamente intuito.
Burt estrasse la pistola, Sergio fece altrettanto.
Janet aveva sonno. Adesso poteva dormire, e sognare di avere un figlio, un marito, una posizione nella famiglia degli affiliati.

Sergio pulì il vomito e il sangue dal suo corpo, si accese una sigaretta e vide Burt Lancaster allontanarsi, mentre i titoli di coda iniziavano a scorrere.


LUIGI FORMOLA 

martedì 23 settembre 2014

Il primo segno di pazzia.



Batte, ribatte sempre lo stesso punto. Potrei allontanarmi, avvicinarmi, lanciarla in diagonale. La palla tocca sempre lo stesso punto. Come se una forza ne limitasse la traiettoria. Tutto converge in quel punto. La palla, l’energia delle mie mani. I miei stessi pensieri. Nessuno crederebbe che sia tutto stabilito. Invece è proprio tutto stabilito. C’è un motivo. La palla. Batte. In. Quel. Punto. Perché. IO voglio che colpisca quel punto. Impiego parte della mia giornata affinché ogni lancio sia sempre uguale. Nessuna forza soprannaturale, nessuna entità che guida la palla. Sono io che scelgo che vada in questo modo. Le idee, le parole ci sono tutte. La storia è pronta. Esercizio, stile, costanza. La scrittura seguirà la traiettoria che IO voglio. Sarà un flusso continuo solo quando non troverò ostacoli sulla mia strada. Nessuno può scegliere al posto mio. Né questa palla, né quella stupida cagna, tanto meno le parole. Sono tutte vittime della mia forza, della mia mente. 


LUIGI FORMOLA

venerdì 19 settembre 2014

Nightmare!




Il letto non era più il luogo sicuro in cui rifugiarmi durante la notte. L’incubo aveva strappato la parvenza di un qualsiasi salvagente. Navigavo su un letto che non aveva possibilità di approdare in un porto sicuro. L’incubo era l’asse portante della mia notte. Avevo sbagliato a sfidare i sogni, ritrovandomi con lui sempre pronto a trasportarmi in un mondo di sonno eterno. Harry era stato chiaro su questo punto, essere un sognatore non porta soltanto al bene, puoi attirare il male come una gigantesca calamita utilizzata nelle demolizioni auto. Di contro pensavo che Harry sbagliasse, sono un sognatore. Che cosa sarebbe potuto capitarmi se i miei pensieri fossero stati, strabordanti di armonia e felicità? Risposi a me stesso. Nulla. Un sognatore ha sempre la meglio. Harry socchiuse gli occhi, scosse la testa in senso di disapprovazione e mi passo il biglietto dorato. Scintillava come se ogni proiezione avesse generato delle vere e proprie scariche di elettricità in un circuito senza fine. Avevo bramato il biglietto dorato a lungo. E non avevo riconosciuto che in questo mio volere si nascondeva il primo errore che mi avrebbe portato all’incubo. Un sognatore non dovrebbe desiderare ardentemente di vivere altre storie attraverso un oggetto magico. Un sognatore ha dalla sua parte la fantasia e amplificarla equivale a camminare con una bomba a orologeria pronta a esplodere tra il primo e il secondo tempo. Harry l’aveva ripetuto l’ultima volta e poi mi aveva dato libero accesso alla sala. Regola le tue emozioni come se dovessi mettere a fuoco una pellicola, disse. Sorrisi ed entrai in sala. Agitati il biglietto dorato, e via. Ero pronto a immergermi in una storia che avrebbe avuto solo e soltanto me come protagonista. Un sogno pronto a diventare nero come la notte, e come l’incubo che può generarsi nel bel mezzo della sua oscurità. Non avrei dovuto vedere quel film, un incubo pronto a spezzare vite nella realtà inducendole a dormire. Dalla realtà, temerario, avevo sfidato l’incubo inconsapevolmente. E se l’incubo avesse attraversato lo schermo con me al ritorno e si aggirasse nella realtà per ringraziarmi a modo suo di averlo liberato? Ogni notte nel letto sono in alto mare. Vorrei sporgermi per controllare se è lì in agguato per tagliarmi la gola. Sento lo strofinio dei suoi artigli sulla rete del letto e stringo a me il biglietto dorato. Sono un sognatore, e devo abbandonare la realtà. Harry aveva ragione. Sarò per tutta la vita un cittadino del mondo in pellicola, saltando da un genere all’altro. Vivrò anche in stupide commedie di serie zeta. Di tutto, pur di non affrontare ancora l’incubo. 


LUIGI FORMOLA